1. La paura della vita come rischio
La vita è rischio, incertezza, pericolo. Tutto quello che si agita intorno a noi e su di noi è precario: basta un nonnulla e crolla. Il sapiente è, dunque, colui che procede con razionalità e realismo: oltre al successo, avrà, forse, anche la felicità. Questi concetti sono ben noti alla nostra società moderna e telematica; ma erano addirittura il fondamento su cui si basava la società dell’antica Roma. Scrittori colti e popolo incolto ma saggio codificarono, più di 20 secoli fa, in detti e proverbi questa dura ma inoppugnabile realtà.
Noi sceglieremo solo tre massime, ancora oggi valide per noi. Cominciamo dalla prima: “Stare sotto la spada di Damocle”. E’ stato Cicerone nelle sue Tusculane a lanciare questo slogan, che si riallaccia ad un aneddoto. Dioniso II invitò il cortigiano Damocle a sedersi sul trono davanti a una tavola imbandita, ma con una spada appesa ad un crine di cavallo sulla testa: era il simbolodella precarietà della vita anche per un tiranno potente come lui.
La seconda massima, inventata da Terenzio, ci fa capire quanto rischiosa sia la scelta stessa dell’individuo in difficoltà. Essa recita “Tengo il lupo per le orecchie” e significa: “Non so come mandare via il lupo, né come tenerlo fermo”. Vale a dire: non mi è possibile nessuna scelta.
La terza sentenza è notissima: “Cade in Scilla chi vuole evitare Cariddi” (Virgilio). Cioè: anche ammesso che riesci a fare una scelta, cadi dalla padella nella brace.
E allora, è impossibile vivere per gli antichi scrittori? No, al contrario. I Romani vedevano il male e sapevano fronteggiarlo. Come? Almeno in tre modi. Innanzitutto, temporeggiando. Ennio disse: “Un uomo solo, temporeggiando, salvò lo Stato”. Alludeva a Quinto Fabio Massimo, detto “Il Temporeggiatore”, che tenne in scacco Annibale: si servì, infatti, di un’abile tattica guerresca, con cui prendeva tempo mentre logorava ai fianchi l’avversario. In secondo luogo, è necessario tenersi aperta più di una via d’uscita: con una metafora Properzio sentenziò “Due ancore proteggono una nave meglio di una sola”.
Ma la migliore soluzione per affrontare il rischio è prenderlo di petto. In una parola, rischiare. Come fece Cesare, che, come racconta Svetonio, quando varcò il Rubicone e sfidò Pompeo, pronunciò la famosa frase: “Alea iacta est” (“Il dado è tratto”, cioè “è stato ormai gettato”). In realtà, come sostiene Plutarco, la vera frase non è al passato, ma all’imperativo futuro: “Che sia gettato il dado”. Insomma, i Latini dinanzi ai rischi della Sorte davano un ordine deciso e perentorio: prevederli, combatterli, sconfiggerli. E così sia.
2. Scoprire la verità sulla violenza
La violenza sembra divorare la nostra società. Violenza pubblica: dittature feroci che reprimono il dissenso con tremendi bagni di sangue. Violenza privata: assassini efferati consumati in famiglia che inondano di orrore il nostro animo, nel quale il solo ascolto di questi misfatti finisce per creare il deserto e la crisi, quella totale, quella della speranza nella umana pietà. Siamo diventati tutti barbari? Un interrogativo dilacerante, a cui è difficile dare una risposta. Perciò, per tentare di vederci più chiaro, volgiamo gli occhi ai padri della Roma classica, faro di cultura e di saggezza.
La capitale del mondo antico non era priva di violenza, anzi ha cementato con essa il suo potere. Basti ricordare che il primo re, Romolo, uccise il fratello Remo nell’atto della fondazione della città, che non fu celebrata con il latte delle dee o con l’acqua sacra, ma con il sangue familiare. Ed è con la violenza che la monarchia finisce: Tarquinio il superbo, il settimo re, fu bandito da Roma perché il figlio Sestio aveva violentato la matrona Lucrezia, moglie del nobile Lucio Tarquinio Collatino, la quale per l’onta subìta si era tolta la vita. Ma anche la storia dell’Impero gronda sangue e violenza. Essa si apre con l’assassinio di Cesare e sfoglia le sue pagine orrende, facendoci leggere i raccapriccianti particolari dell’uccisione di Agrippina, trafitta da un killer inviato dal figlio Nerone, e gli eccidi che falciarono migliaia di Cristiani.
Eppure, gli scrittori della letteratura latina trovarono il coraggio di denunciare quanto la violenza fosse stata la calce con cui erano state innalzate le mura della roccaforte del pot2.ere di Roma. Il primo fu Cesare, che talvolta fu clemente con i nemici, ma spesso fu spietato con i popoli da sottomettere. Nel 52 a.C., durante la guerra gallica, prende atto che la sua azione di logorante assedio di Alesia ha prodotto effetti devastanti. Tra questi, il discorso di un nobile, di nome Critognato, che incoraggia i compagni stremati dall’assedio: egli arriva perfino all’estrema proposta dell’antropofagia. Insomma, suggerisce ai suoi concittadini anziani, ormai inabili a combattere, di sostentare con le proprie carni tutti coloro che sono utili alla difesa della città, pur di non cadere nelle grinfie dei Romani. Cesare per la prima ed unica volta riporta in discorso diretto tutte le terribili parole del nobile gallo, autodenunciando dunque la spietatezza della sua politica di conquista.
Non dissimile fu un altro discorso: quello di Calgaco, capo del popolo dei Caledoni che, nell’83-’84, combatté contro Giulio Agricola, governatore romano della Britannia. Fu il grande storico Tacito, genero dello stesso Agricola, che riportò le parole di Calgaco, il quale dei Romani disse: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Fanno il deserto, e lo chiamano pace”. Una denuncia, insomma, gridata a piena voce, dell’imperialismo romano.
Se anche noi, oggi, avessimo il coraggio di denunciare il cancro della Violenza, forse potremmo dire di essere degli uomini degni di questo nome.
3. L’uomo è lupo per l’altro uomo
Ancora la Violenza: parola terribile, capace di suscitare ira e condanna. La violenza sembra una peculiarità del nostro tempo, trafitto dalla banalità del Male. Eppure, se volgiamo lo sguardo alla civiltà di cui siamo figli, quella di Roma antica, la vediamo attraversata da una violenza senza fine, presente già nel suo nome: “Roma” significa, infatti “forza violenta”. Quando la Repubblica finì nel 44 a. C., sotto le pugnalate dei congiurati che abbatterono il mito di Cesare e spianarono la strada all’Impero, nacque il primo esempio di globalizzazione nella storia, in cui una nazione egemone, Roma, impose con le armi il suo potere al mondo.
Inutile fu, però, la violenza contro i Cristiani, visti dagli Imperatori come pericolosi sovversivi della tradizione e dell’ordine pubblico. Le torture e le persecuzioni contro di loro servirono solo a far conoscere meglio il verbo di Cristo. “Il sangue dei Cristiani -disse Tertulliano- è il seme della diffusione della loro fede”.
La violenza permea anche i proverbi latini. Uno è davvero cinico: “I morti non mordono”. La frase fu pronunciata da Teodoro di Chio, che riuscì a convincere Tolomeo ad uccidere Pompeo per ingraziarsi Cesare: un delitto, insomma, valeva bene il Potere. Altrettanto terribile è una famosa massima dell’Aulularia del commediografo Tito Maccio Plauto: ”L’uomo è un lupo per l’altro uomo”. Per fortuna Cecilio e Terenzio la corressero e dissero “L’uomo è un dio per l’altro uomo”. Parole sante! Questa correzione diede origine alla civiltà dell’Occidente.
4. Affrontare il caos
Ordine pubblico e paura del caos governarono sovrani la storia dell’antica Roma, che dominò su popoli diversi temendo sempre la disgregazione, la contestazione, la diffusione di elementi “sovversivi”. La dimensione urbana nella Roma classica era vista come l’emblema della modernità, mentre quella rurale era l’ambiente ritenuto più adatto alla conservazione degli antichi valori.
Ma la città era anche il luogo del rischio, che era rappresentato innanzitutto dal nemico esterno. Al tempo delle origini (VIII-VI sec.), ad esempio, la zona di Trastevere era una terra “ostile” che apparteneva agli Etruschi; e perciò i Romani la occuparono per poter sorvegliare meglio il fiume Tevere, importante non solo per il suo carattere sacro, ma anche per il suo ruolo di controllo strategico del territorio, che rendeva più sicura la città.
Talvolta i turbatori dell’ordine pubblico erano gli adepti di religioni diverse da quella ufficiale dello Stato romano. Quest’ultima si configurava in modo tale che spettava solo ai magistrati valutare i presagi e comunicare ai fedeli la buona disposizione degli dèi verso le azioni da compiere: nessun rapporto diretto, pertanto, era possibile fra uomini e divinità. Perciò, quando nel II sec. a.C. si diffusero i culti orgiastici orientali che si fondavano sulla comunione diretta fra il devoto e il dio, essi furono visti come avversari della sicurezza pubblica. Ad esempio, il culto in onore di Dioniso-Bacco prevedeva l’iniziazione segreta, la coniuratio (parola che faceva tremare i benpensanti, anche se significava semplicemente “giuramento fatto insieme”) e la condizione di “possessione” del devoto da parte del dio, ottenuta attraverso l’assunzione di vino.
Tito Livio, in merito a questo fenomeno di costume, parla di “strepiti ed ululati” che provenivano da molte case di Roma, allorquando si tenevano cerimonie bacchiche. Questo preoccupò tanto le autorità che esse, nel 186 a. C., ricorsero alla repressione dei Baccanali, che da allora divennero una vera e propria ritualità occulta e maledetta.
Sicuramente fu più temuta la diffusione di nuove religioni rispetto al fenomeno della prostituzione minorile: frequenti erano i casi di genitori che, spinti dalla povertà, vendevano le figlie a lenoni e ruffiane o di orfane che erano costrette al commercio del loro corpo nei bordelli. Il motivo di questo tacito assenso verso tale grave fenomeno era l’interesse dell’aristocrazia, che dal sesso a pagamento traeva alti profitti con costi modesti.
Altre volte, sovvertitori della città furono considerati i “nemici politici”. Emblematico fu, in epoca repubblicana, il caso della Congiura di Catilina, che fu temuta come un attentato alla stabilità dello Stato romano. Catilina, almeno come ce lo presenta lo storico Sallustio, era un aristocratico rovinato dai debiti che aveva riunito intorno a sé un gruppo di facinorosi e di nobili falliti e corrotti dal lusso eccessivo. Questo personaggio, che morì comunque da eroe in battaglia presso Pistoia, svelò il cancro che corrodeva la stabilità della città: il contrasto fra i pochi detentori privilegiati di ricchezze e i molti cittadini deprivati del potere e comunque desiderosi di una rivincita sociale.
Ma l’ordine pubblico e la serenità della vita urbana furono seriamente messi in crisi, nel periodo imperiale, dal ritmo assordante della città, divenuta ormai una vera e propria “zona a rischio”, come denunziò sarcasticamente il poeta Marziale nella sua terza “Satira”. A Roma la maggior parte degli ammalati moriva di insonnia per il chiasso infernale che proveniva dalle strade, dove sfrecciavano su e giù carri e mezzi mobili di ogni genere, che si infilavano fin nei più stretti budelli dei vicoli. E, se si usciva per strada, era pericoloso l’impatto con la folla che si parava dinanzi e con quella che faceva pressione da dietro. La città era un’enorme e puzzolente cucina all’aperto: dappertutto c’era gente che preparava il suo pasto con i viveri e gli arnesi da cucina che portava sempre con sé. Non mancava, infine, il rischio di essere travolti da veicoli che, incespicando nei sassi delle vie, rovesciavano addosso ai malcapitati passanti i tronchi di legno o i cubi di granito che trasportavano.
Insomma, Roma, la grande metropoli del mondo antico, fu, durante tutta la sua millenaria storia, una succursale dell’inferno, minacciata da un disordine endemico e attraversata -essa che fu la patria del diritto- da rigurgiti reazionari. Perciò, quando parliamo dei “tempi felici di una volta”, pensiamoci bene due volte, prima di proporci come “lodatori del tempo passato”.
5. Lo spettro della crisi
Crisi: parola terribile. Non la vorremmo mai sentire, eppure sta sempre davanti a noi, talvolta dentro di noi. Crisi: parola moderna, attualissima, visto i frequenti crolli delle Borse statunitensi ed europee. Ma, al tempo stesso, parola antichissima. Essa, che ha la sua origine nelle lingue classiche, prima greca e poi latina, significava “separazione” e “scelta”. Importata poi nella lingua italiana, ha significato nel 1600 “condizione di separazione rispetto alla normalità” e poi, con Ugo Foscolo, “inasprimento improvviso di un fenomeno”.
Se la parola è dunque antica, evidentemente anche il mondo antico dovette trovarsi talvolta in condizioni di “difficile separazione” e di “difficile scelta”, non molto diverse da quella di oggi. Facciamo allora una full immersion nella storia dell’antica Roma per trovare qualche momento di crisi economica.
Il primo si verificò dopo l’istituzione della Repubblica (508 a.C.). Una legge aveva infatti confiscato le terre ai proprietari di terre, che si spostarono dalle campagne in città, per motivi di sopravvivenza. A Roma però non trovarono una situazione favorevole, perché i senatori, che erano aristocratici, vedevano come il fumo negli occhi i rappresentanti di questa nuova classe sociale. Costoro erano disposti a tutto ed erano pronti a dar vita ad ogni tipo di commercio, pur di arricchirsi.
Alla lunga trionfarono i nuovi mercanti, che diedero vita ad una società forte e potente, affermatasi soprattutto dopo le vittorie su Cartagine: i mercati si ampliarono e cominciò lo sfruttamento delle Province. La crisi era stata sconfitta ed era nata, in un clima di globalizzazione, la più grande Super-potenza dell’antichità: Roma, affaristica e consumistica.
Quasi due secoli dopo, la Repubblica romana diventò Impero romano, solido come il granito, ma pur esso attraversato da crisi. La più grave recessione fu sotto la dinastia dei Severi (211-235), che scelsero di puntare solo sulla forza per gestire il loro immenso potere. Ma pagarono con il sangue: quasi tutti finirono vittime di congiure militari e dopo di loro ci furono 50 anni di anarchia militare, fino al 285.
Quella crisi economica fu più terribile di questa nostra contemporanea. Gli Imperatori, incauti e spendaccioni, si trasformarono in falsari: fecero coniare monete che contenevano sempre meno il prezioso argento e sempre di più il vile rame. Il prezzo dei cereali aumentò di venti volte e il denaro arrivò ad una svalutazione del 71%: l’inflazione galoppava nei mercati, nelle piazze, nelle case, travolgendo tutti e tutto.
Anche i Romani avevano dimenticato la bella massima del vecchio Catone: “Non comprare ciò che non ti serve, ma solo ciò che per te è strettamente necessario. Per quel che non ti serve è caro anche un solo denaro”.
6. La paura della corruzione
Giovani e crisi: un binomio che preoccupa. Sono loro i capri espiatori del nostro attuale malessere. Loro che sono le nostre speranze. Anzi, le nostre certezze. E noi adulti soffriamo nel vederli soffrire. Soprattutto quando li vediamo affranti dalla tragica mescolanza fra l’arroganza del Potere con i suoi scandali e la stolta prepotenza della cattiva TV che omologa e massifica. C’è stata -ci chiediamo- una fase storica del passato che potrebbe ricordarci l’epoca che stiamo vivendo? Forse, sì. Quell’antica Roma, in cui gli Imperatori dispiegavano la loro folle potenza.
Se apriamo i libri di storia alle pagine, grondanti di sangue, del principato neroniano, vediamo volti ed eventi che sanno di tragica attualità. Anche allora era diffuso uno strano populismo: gli imperatori, infatti, da Caligola a Nerone, erano amati dal popolo: essi sapevano ingannarli con distribuzioni di pane e con feste da circo. Una variante antica, questa, del corrotto mondo contemporaneo dello spettacolo, che ha connivenze con il sottobosco della politica.
Nerone stesso aveva esordito nel ’54 come principe illuminato. E tutti, da Seneca a Lucano, caddero nella trappola e pensarono di consegnare ai posteri il mito di una nuova età dell’oro. Ma poi gli scandali lo travolsero, un po’ come è successo lungo tutto il Novecento, che ha visto cadere i regimi più sanguinari, quasi implosi sulle loro macerie.
Una crisi di valori e di sistema avvinghiò il despota, che, come i moderni tiranni, pensò che gli fosse consentito tutto. Persino di avere rapporti incestuosi con la madre e poi di mandare uno spietato killer a conficcarle una spada nel ventre.
I giovani intellettuali pagarono lo scotto delle loro illusioni; e al poeta Lucano, che il despota temeva come suo concorrente nella scrittura, fu ordinato di darsi la morte. Non mancavano allora i gaudenti raffinati, che conoscevano tutte le brutture del regime: tra essi Petronio Arbitro, un moderno dandy, autore del Satyricon, che, prima di suicidarsi, stilò un dossier (una specie di Wikileaks), in cui denunciò tutte le concubine e i corrotti della corte neroniana. Nerone, giovane lui stesso, era un antenato dei divi della TV: suonava, cantava, si esibiva in pubblico. E morì da protagonista ante litteram di un arcaico reality show. Emblematica fu la frase che pronunciò prima di suicidarsi a trent’anni: “Quale grande artista sta morendo!”
Le giovani generazioni uscirono allora dalla crisi? Certamente sì. Ricominciarono con Tacito a credere nello Stato e nella serietà dei grandi funzionari come Agricola. Compresero che oltre questo mondo, dominato dal male e dalla corruzione, vi è un altro mondo, dove i giusti avranno la loro ricompensa. Si diffuse il Cristianesimo, che diede la speranza di salvezza agli “umili in spirito” e ai pezzi piccoli della terra. E, anche chi non fu cristiano, come Apuleio, credette nella necessità di espiare le proprie colpe. Insomma, ha proprio ragione l’Ecclesiaste: “Solo chi cade può risorgere”.
7. La paura del sospetto
La cultura del sospetto aleggia sulle cronache pubbliche e private della nostra società. Vedere nell’altro un oppositore o un nemico è divenuto da tempo il condimento necessario per sapere stare in questa valle di lupi, che i cinici considerano il mondo. Ma anche in questa freddezza di cuore, come al solito, siamo stati preceduti dagli antichi Romani.
Del sospetto parlava anche un poeta latino, mite e raffinato, come Virgilio, il quale scrisse, nella sua terza “Bucolica”, un verso divenuto poi famoso: ”Nell’erba sta nascosto una serpe”, per invitare i raccoglitori di fragole a stare attenti. E, sempre in Virgilio, un celebre personaggio mitologico femminile, di nome Euridice, muore per il morso di un serpente annidato nell’erba alta: per lei poi Orfeo scende negli Inferi nel vano tentativo di riportarla in vita.
Ancor più sorprendente (e veritiero?) è il caso, narrato da Fedro, del contadino che salva una vipera intirizzita dal freddo e poi viene ricompensato con un morso dal rettile tornato in pieno vigore. Insomma, a Roma i cattivi pensieri erano tipici di chi compiva il male, ma talvolta era considerato un bene che albergassero anche nella mente di chi sospettava che gli altri gli facessero del male.
Bisogna, cioè, sempre stare all’erta, perché il male è perennemente in agguato. E addirittura lo stesso imperatore Augusto sentenziò: “Si può anche amare il tradimento, ma bisogna odiare il traditore”. Quest’ultima è una vil razza dannata, anche quando la sua azione malvagia risulta oggettivamente utile.
E poi non dimentichiamo l’infedeltà in amore. Terribile. Angoscioso. Da non augurare a nessuno. Eppure il più grande poeta latino d’amore, Catullo, ha tratto delle poesie immortali dall’indefeltà della sua Lesbia. Egli sa bene che la sua donna, volubile e sensuale, fiacca le reni ai suoi amanti, abbracciandoli in numero di trecento.
Ma, quando la vede con un altro uomo, costui sembra al poeta un essere simile a un dio. Preso dalla gelosia, Catullo allora si sente svenire, la lingua gli si blocca, un fuoco gli attraversa le membra, le orecchie gli ronzano e una duplice notte avvolge i suoi occhi.
Povero Catullo! Ma fortunati noi posteri, che, grazie solo sospetto che la sua donna possa essergli infedele, andiamo in estasi leggendo versi che sono tra i più sublimi al mondo.
8. La paura della calunnia
Spie, intercettazioni, denunce. Sembrano vicende solo di oggi, della società dei cellulari, dei servizi segreti, dei retroscena sconvolgenti. Eppure, hanno segnato anche la politica e gli intrighi delle società antiche, come quella greca in cui la democrazia nacque e fiorì.
Ad Atene, culla del teatro e della filosofia, era addirittura una professione fare la spia o, come si chiamava allora, il “sicofante”. Questo termine, che significava “colui che additava i ladri di fichi”, indicava un privato cittadino, che di propria iniziativa denunciava alle autorità un reato, azione che peraltro era prevista da una norma del diritto attico.
Anche Sparta, retta da regime oligarchico, alimentava lo spionaggio interno. La città era in una situazione particolarmente vulnerabile, a causa della sua numerosa popolazione di iloti, cioè di servi, che erano sottoposti ad una rete ferrea di delatori, perché considerati socialmente eversivi.
Gli spioni giocarono un ruolo determinante in uno dei casi più misteriosi dell’epoca: quello di Alcibiade, che nel 415 a. C. fu costretto a fuggire a Sparta perché, in base alle informazioni dei delatori, fu incriminato per aver mutilato le statue del dio Ermes.
E contro i nemici esterni l’intelligence, naturalmente, era ancor più impegnata. I messaggi venivano inviati nascosti tra i due strati della suola di una scarpa oppure occultati in piccoli pezzi di piombo indossati poi da una donna come orecchini.
Ingegnoso era il metodo della scìtale, un cilindro di legno, intorno al quale era avvolta ad elica una striscia di papiro: su di essa veniva scritto il messaggio segreto, che, una volta tolto il bastone, non era più leggibile. Per la decifrazione era necessario disporre di un cilindro ligneo uguale a quello usato in precedenza.
Talvolta venivano usate le persone stesse come mezzo di trasmissione criptata. Nelle sue Storie Erodoto racconta che Istieo, nel 499 a. C., per mandare nella Ionia il segnale di inizio della rivolta contro i Persiani, fece rasare la testa di un suo schiavo e vi fece tatuare un messaggio segreto. Solo dopo che gli ricrebbero i capelli, lo inviò presso i capi dei rivoltosi, che potettero leggere le preziose indicazioni sulla testa, di nuovo rasata, del messaggero.
Insomma la Grecia, che ha conosciuto i regimi politici in tutte le salse, condì la politica con il più amaro degli ingredienti: il veleno della calunnia o la soffiata di disgustosi 007.
9. La paura del tradimento
Vergognoso. Infame. Terribile. Così è stato da sempre considerato il tradimento. La mentalità collettiva ha fatto dell’icona del traditore il modello più spregevole di essere umano. Dante punisce i traditori nel ghiaccio, insieme a Giuda, tra i dannati più vicini al Diavolo. Termine che significa “colui che inganna e divide”. Rispetto a questa colpa l’antica Roma, patria del diritto universale, ha avuto un atteggiamento complesso. Che vale la pena oggi di conoscere.
Cominciamo dal tradimento coniugale. Inizialmente la punizione era privata: la legge prevedeva il “diritto di uccidere” l’adultera, che veniva direttamente esercitato o dal marito o dal padre di lei. In altri casi, che oggi ci farebbero inorridire, il coniuge poteva ripudiare la consorte. Come fece, ad esempio, Caio Sulpicio Gallo, che scacciò sua moglie, perché era uscita fuori casa a capo scoperto. Solo lui, in quanto marito, aveva il diritto di guardare la moglie senza copricapo: avere osato trasgredire questa usanza significava aver tenuto un atteggiamento sensualmente provocatorio.
L’imperatore Augusto mitigò le pene per questo reato: la sua “Legge Iulia” vietava l’uccisione dell’adultera da parte del marito, ma ne consentiva il ripudio. In verità, il coniuge tradito aveva il diritto di sfogarsi a suo piacimento contro l’amante della moglie, se egli coglieva il flagrante i due fedifraghi: gli poteva tagliare il naso o le orecchie, infliggere le torture più varie e arrivare fino all’evirazione del malcapitato. In seguito, con la diffusione della filosofia stoica e del Cristianesimo, si giunse ad equiparare la colpa dei due coniugi, nel senso che la responsabilità del reato (e del peccato) di tradimento poteva essere attribuita non solo alla donna, ma anche al marito.
Ma nei confronti di un altro tipo di tradimento (quello verso la patria e la maestà dell’Imperatore) l’opinione pubblica e la legge scritta rimasero inflessibili. I reati di aggressione a magistrati, di alto tradimento e di intesa con il nemico erano puniti con l’interdizione dall’acqua e dal fuoco e, addirittura, con la pena capitale.
Un caso famoso di tradimento, ambiguo e controverso, fu quello di Tarpeia: un vero e proprio episodio di moderno “Sbatti il mostro in prima pagina”. La donna chiese a Tito Tazio, re dei Sabini che assediavano Roma, i loro gioielli in cambio della loro entrata segreta nella città di Roma. Quando i Sabini riuscirono ad entrare nell’Urbe, invece del premio proméssole, disgustati dal suo tradimento, la gettarono dall’alto di una rupe, poi chiamata “Tarpea”. In realtà, c’è un’altra versione dei fatti. Secondo Dionigi di Alicarnasso, Tarpeia non avrebbe tradito; ma, in cambio del passaggio segreto attraverso la porta della rocca del Campidoglio, avrebbe chiesto ai Sabini di consegnarle “ciò che portavano al braccio sinistro”, cioè lo scudo, in modo che essi potessero essere facilmente sopraffatti dai soldati romani. Fu lei poi ad essere tradita da un messaggero; e i Sabini, per vendicarsi di questa donna-patriota, la uccisero, seppellendola con i loro scudi. Dunque, attenzione anche oggi! Coloro che sono sospettati di tradimento potrebbero essere traditi da veri e spietati traditori.
10. La paura della vita come finzione
C’è un personaggio immortale nel teatro universale, messo in scena da Corneille alla Commedia dell’Arte, da Pietro Aretino a Carlo Goldoni: è il soldato vanaglorioso, inventato da Plauto, il maestro della Commedia latina. E, se la vita stessa è una recita, questa figura ci consente di risolvere un interrogativo spesso ricorrente: i personaggi teatrali sono finzioni per fuggire dalla realtà o ci trasmettono un messaggio?
Per rispondere, facciamo salire sulla scena la creatura di Plauto. Il suo nome è tutto un programma: Pirgopolinice, che significa “l’espugnatore di fortezze e città”. Al suo fianco c’è un parassita, che disprezza il suo padrone, ma è costretto a vantarlo. Si chiama Artotrogo, cioè “il mangiatore di pane a sbafo”. Il dialogo fra i due è un elenco di assurdità. Il vantone esige che il parassita esalti le sue false prodezze: come quando “spezzò con un solo pugno una coscia ad un elefante” o “uccise settemila nemici in un giorno solo”.
Peccato che, nella sua più eroica battaglia, gli si spuntò la spada, altrimenti avrebbe fatto una carneficina. E non è finita, perché l’espugnatore di fortezze è anche un espugnatore di cuori femminili: le donne -così si illude lui- vorrebbero vederlo “sfilare” come un “modello” di oggi per sciogliersi in brodo di giuggiole.
L’universalità di questa scena sta nel triangolo comico: il soldato si vanta ridicolmente, il parassita lo prende in giro, il pubblico si rende conto che quello che vede è solo una finzione. Qui sta tutto il punto: gli spettatori (che poi siamo tutti noi) partecipano alla festa del teatro, che è beffardo ed assurdo, ma è anche veritiero, proprio perché descrive le assurdità della vita.
Perciò il pubblico, pur stando in platea, fa parte dello spettacolo, anzi fa lo spettacolo. Solo così esso può prendere in giro il potere dei forti, dei belli, dei politici, proprio come ieri Plauto, attraverso Pirgopolinice, prendeva in giro nientemeno che Scipione l’Africano. E solo così, il teatro, arte di opposizione per eccellenza, anche quando scherza e sorride, trasmette il più nobile messaggio che si possa immaginare: la libertà dell’uomo.
E così l’uomo dell’antica Roma (e, forse, anche l’uomo di oggi), ironizzando con distacco sulla finzione della Vita, può “porre là”, isolare, in uno spazio ben visibile e controllabile, gli incubi del dolore e della violenza, della precarietà e del tradimento, in una parola, la paura del Male e del Negativo e continuare, con fatica ma con fiducia, la possente e magnifica fatica dell’esistere sul volto della Terra.