Articolo a cura del nostro inviato, Pasquale Ruotolo
Nove minuti di scroscianti applausi a suggellare il successo della “Prima” del titolo operistico, il quinto stagionale, in scena al “Carlo Felice” di Genova venerdì 24 febbraio: l’attesissima “Tosca” di Giacomo Puccini.
In teatro si registra il sold out. Presenti in sala anche il sindaco Marco Bucci e il virologo Matteo Bassetti.
La musica di Puccini, suonata dagli orchestrali diretti dal Maestro Pier Giorgio Morandi, ammalia sin dalle prime note un trepidante pubblico che commenta, gioisce, si commuove.
La soprano Maria Jose Siri torna a Genova portando in scena un ruolo a lei caro, quello di Tosca.
Floria Tosca è una donna follemente innamorata di Mario Cavaradossi e questa follia si traduce in gelosia accecante (a tratti perfino irritante), impulsività, omicidio.
Pur essendo fedele al confessore “al qual nulla tiene celato”, ella non è in grado di dominare gli aspetti più sgraziati della sua personalità, apparentemente forte e determinata.
Il canto della Siri è simile ad una delicata carezza che avvolge l’anima, la sua dizione è chiarissima, perfetta, al punto che non occorre seguire il libretto per comprendere le parole intonate.
Siri regge e domina il lungo confronto con Scarpia, nel cuore del secondo atto e l’aria “Vissi d’arte” è eseguita con tangibile partecipazione. Alla perfezione tecnico espressiva dell’esecuzione si accompagna un angosciante senso di sofferenza, che la Siri riesce a far scaturire dal di dentro della protagonista.
Il dubbio che Tosca si pone, d’altronde, accomuna tutti gli uomini nei momenti più difficili dell’esistenza (“Nell’ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?)
A vestire i panni del vulcanico Mario Cavaradossi è il tenore Riccardo Massi.
La coppia Siri-Massi funziona e l’intesa tra i due è evidente sin dal primo duetto, a partire dal momento in cui la tensione figlia della gelosia della donna si scioglie nella passionale dichiarazione del pittore: “Ah! M’avvinci ne’ tuoi lacci, mia sirena”.
Suggestivo anche il duetto finale, che culmina nello strepitoso “Trionfal di nova speme”: Massi e Siri cantano simultaneamente quasi urlando tenendosi per mano, con lo sguardo raggiante rivolto verso l’orizzonte, intravedendo salvezza e libertà.
Strappalacrime la presentazione dell’aria “E lucevan le stelle”, dove traspare l’inconsolabile afflizione del condannato Cavaradossi che rammenta i momenti di calda intimità vissuti con Tosca, ma purtroppo “L’ora è fuggita, e muoio disperato. E non ho amato mai tanto la vita”.
Amartuvshin Enkhbat è Scarpia, il capo della polizia che crede in Dio e lo prega, ma è pieno di ipocrisia.
L’aria “Ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso”, a inizio di secondo atto, interpretata dal baritono mongolo con vigore e autorità sostenuti da un discreto impianto vocale, mettono in luce le negatività e le ombre che avvolgono la figura del perfido individuo.
Lo Scarpia di Enkhbat è una figura decisa, risoluta, inflessibile e succube delle sue disordinate pulsioni e perversioni sessuali.
Il canto del baritono è sicuro, il timbro vocale profondo, a tratti tendente al grave.
Le espressioni facciali dell’artista non mutano quasi mai, la maschera è di ghiaccio, ma del resto si ha di fronte il temibile Scarpia che manda a morte i rei.
Simpatico e bravo il basso originario di Savona, l’esperto Matteo Peirone, interprete del sagrestano, ruolo che in questa produzione calza per la duecentocinquantesima volta in carriera.
Il grande pavimento roteante, sorretto da un piedistallo, rappresenta il fulcro della scenografia.
Sullo sfondo, invece, le immagini occasionalmente proiettate mutano seguendo la narrazione scenica (assai eloquente il Cristo sanguinante in croce e molto carino il lucente interno della cupola della Chiesa).
La regia di Davide Livermore ha il merito di evidenziare con accuratezza gli aspetti focali caratterizzanti la vicenda (la tortura inflitta a Cavaradossi, ad esempio, è in bella mostra al centro del palcoscenico), e la morte di Tosca avviene in maniera diversa rispetto a come il libretto, e la tradizione, impongono.
Inseguita dai soldati, spaventata e confusa, Tosca osserva la statua che è a Castel Sant’Angelo prendere improvvisamente vita e l’individuo di cemento fa il gesto di colpirla con la grande croce che tiene tra le mani.
La donna ha ucciso Scarpia e la coscienza le presenta il conto del delitto commesso mentre, ansimante, ella prende consapevolezza di aver lasciato questo mondo incontrando con lo sguardo il suo corpo esanime, a pochi metri di distanza, con il capo circondato da una pozza di sangue.
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