La Bellezza del Sapere, della Scrittura e della Fantasia trionfa in queste magistrali pagine, leggere eppur cariche di valori e di un pregnante orizzonte di senso
Spesso i luoghi hanno un’anima segreta, sconosciuta ai più, talvolta condannata al silenzio. Un’anima, che, con i suoi sussurri e le sue grida, contiene, come uno scrigno prezioso, la storia, le leggende, i valori di un popolo. E, quando qualcuno riesce a svelare le pieghe profonde di quest’anima ancora viva e palpitante, una luce si accende su questi affascinanti siti e su coloro che hanno la fortuna di essere destinatari di tali magiche scoperte. Questa è la sensazione che prova il lettore di un originale e avvincente volume di Dario Ianneci, docente coltissimo sempre all’avanguardia, umanista finissimo, studioso rigoroso della tradizione storica e folklorica del Meridione, saggista profondo, un grande scrittore dotato di uno stile suadente e immaginifico.
Il titolo del volume è “Aquilonia”. Sottotitolo: “Storie di condottieri, viaggiatori, geografi, scrittori sulle tracce di una città introvabile”. Queste parole sono tutto un programma. Innanzitutto, “storie”: il ricorso al plurale fa subito immaginare un reticolo di vicende della piccola e della grande storia che si illuminano a vicenda e squarciano il velo d’ombra che il tempo su di esse ha dispiegato. Storie piene di “tracce” (la seconda novità), di particolari, di rivelazioni, di dettagli. Flaubert disse: “Nei dettagli c’è Dio”, alludendo ad una unità superiore. Ebbene, questo libro appartiene al tipo di testi che, pur dispiegandosi nel tempo, mantengono un “file rouge”, talvolta “noir” (perché tratta anche di battaglie e di eccidi), che collega fatti sotterranei simili a correnti carsiche, che si inabissano e riaffiorano. In terzo luogo, il tutto è in relazione alla storia, affascinante e ancora umbratile, di una città del passato, Aquilonia, “città introvabile”, la cui identità è incerta, come incerta e inspiegabile è spesso la Vita stessa.
Proviamo a ripercorrere le tappe di questa storia segreta, una storia peraltro narrata come in un romanzo o, potremmo anche dire, come in un film, perché la narrazione appassionante e creativa ci fa quasi “vedere” le varie scene che si susseguono come in una proiezione cinematografica. La prima scena è una sorta di prologo-prequel e ha come protagonista Scipione l’Africano che assiste commosso alla fine di Cartagine da lui causata. Nello scenario spettrale si staglia sullo sfondo del cielo una cicogna, uccello misterioso, proveniente da terre lontane. Un vecchio Italico, al seguito del comandante romano, spiega che la sua gente chiama quel volatile “Akerumnia”, la madre cicogna, splendente nel colore bianco delle sue piume. Questo uccello e questo colore contrassegneranno la bianca “armata degli Irpini” che eroicamente combatte contro l’aquila dell’esercito romano e la lupa scura simbolo di Roma. Comandante degli eredi di Romolo era Lucio Papirio Cursore, il quale scatenò nel 293 a. C. la ferrea potenza delle aquile romane contro gli Irpini ad Aquilonia.
Terribile il retroscena: i presagi degli aruspici erano sfavorevoli a Roma, ma un sacerdote abile e menzognero riferì al comandante romano, ansioso di combattere, l’esatto contrario della verità: disse cioè che i sacrifici animali deponevano a favore dell’attacco finale. “Papirio ne fu lieto. Levò un grido di gioia. Fece svegliare le truppe. Riferì loro che l’auspicio era risultato assai favorevole. I legionari levarono alte grida”. E’, questa, una descrizione che potrebbe bellamente figurare in un grande romanzo storico. Lo stile di Ianneci, finemente incentrato su messaggi brevissimi e lapidari, conferisce alla narrazione un ritmo concitato e martellante che risuona cupo nella notte. Sia il comandante che i legionari “levano grida”: e questa iterazione con lieve “variatio” fa dell’esercito romano un corpo unico che si lancia compatto come una valanga contro il nemico. Dopo questo attacco feroce le città di Aquilonia e Cominio “deflagravere”, cioè “bruciarono”: ma il verbo latino dà l’idea di una vera e propria deflagrazione, quasi un’esplosione che coinvolge uomini e cose, vittime della ferocia romana.
Seconda scena. Da allora la città di Aquilonia fu sradicata anche dal suo sito. Nessuno più riuscì a identificare il luogo in cui era sorta. Ci provarono viaggiatori ed eruditi, esperti di storia e colti geografi. Ma inutilmente. Due di essi, Filippo Cluverio e Luca Olstenio fecero il loro “Grand Toour” in Italia Meridionale proprio sulle tracce di Aquilonia. E dissentirono nelle conclusioni: per Cluverio l’antica Aquilonia era il piccolo paese di Carbonara, mentre per Olstenio era La Cedogna (Lacedonia), più grande di Carbonara.
E (terza scena) “nel 1862, una decisione politica fece rinascere Aquilonia in Irpinia nel piccolo borgo di Carbonara, punito con la cancellazione del suo nome storico per aver rifiutato con una sanguinosa rivolta la monarchia dei Savoia e l’Unità italiana”. Ancora una volta, la storia dell’eroica città irpina si ripete: la sua ribellione contro i vincenti si traduce in una sconfitta amara. Sconfitta sì, ma con onore ed eroismo. Anche questi paralleli storico-geografici dell’Autore rendono l’idea sapientissima di un “tout se tient”, di un cerchio che si chiude, di un “eterno ritorno” della ruota feroce della Storia. Alla “punizione burocratica” seguì poi (quarta scena) la catastrofe sismica del 1930: il capitolo 17 è uno dei gioielli di questo saggio-romanzo, che attira il lettore dentro la scena, in cui di nuovo campeggia una cicogna bianca nel cielo del paese, di cui rimarranno solo “brandelli di case e muri sconnessi”. Solo la letteratura (epilogo) riuscì a far risorgere metaforicamente Aquilonia, perché in quei luoghi, anzi “Ur-luoghi” (“Luoghi primordiali”) un grande scrittore, Robert E. Howard, ambientò la sua saga di “Conan il barbaro”, a testimonianza di come la Poesia, foscolianamente, possa rendere immortali anche le ultime vestigia di una civiltà persa in quanto al ricordo esplicito, ma non perduta per sempre, perché radicata nell’immaginario collettivo.
Auguriamo a questo sorprendente e magistrale libro di Dario Ianneci molti lettori, perché, nonostante l’inaridimento della nostra società, esistono lettori liberi e forti che credono nel motto sveviano “Fuor della penna non c’è salvezza”. Forse è vero che la Bellezza del Sapere, della Scrittura, della Fantasia salverà il Mondo.