
Dalla nostra inviata negli Stati Uniti d'America
The second feature film by one of the most talented current director, the Belgian Lukas Dhont. CLOSE is a delicate coming of age, that going through male friendship, discloses the lost of the childhood connections and the pain, the loneliness of the adolescence. Thanks to an huge cinematography and a full on meaning photography, CLOSE seems like an hard to forget movie.
Lungometraggio presente rigorosamente al cinema dal 4 gennaio. Premiato recentemente al Festival del Cinema di Cannes, dove ha vinto il Gran Prix Speciale della Giuria e candidato, tra i concorsi prestigiosi, ai Golden Globe come miglior film straniero e nella shortlist degli Oscar per la stessa categoria, e’ la seconda opera del regista belga Lukas Dhont, colto, raffinato, di rara sensibilita’ e con un’idea di cinema ben precisa: dapprima con GIRL, e successivamente con CLOSE, il cineasta si mostra attento, vicino (close, per l’appunto) alle dinamiche della giovinezza in un racconto di formazione che rompe i canoni tradizionali della narrazione – eccetto che nella delicata e lenta scopertura dei protagonisti che facilita il coinvolgimento dello spettatore nel momento di rottura della storia -, regalandoci un ritratto dolcissimo e brutale, come lo e’ la verita’, delle pagine dell’adolescenza.
La trama e’ semplice: due giovani, Léo (Eden Dambrine, incontrato fortuitamente dal regista in un viaggio in treno) e Rémi (Gustav De Waele) hanno tredici anni e abitano in campagna, vivono un tempo esteriormente dilatato, mentre imperversa quello interiore della loro amicizia: si definiscono fratelli perche’ si conoscono crescendo insieme, attraversano la quotidianita’ fatta di giochi, esperienze e racconti. Dhont sceglie l’estate, colori, luci e il sole accecante come sfondo per la narrazione dell’innocenza dell’infanzia.
A scuola non e’ difficile accorgersi di quella intimita’, innocente e sincera, ma che sia in coloro che li circondano che nello spettatore si percepisce “sospetta”, e giu’ sguardi e una domanda cosi’ ingenua e banale da radicarsi per sempre nel legame tra i due, segnando definitivamente il loro percorso di crescita.
La dinamica del conflitto interiore generata dal confronto con gli altri, con coloro che sono fuori dal rapporto a due, e’ sottile ma palpabile: la paura di essere diversi sembra di primo acchito generare l’effetto opposto, una dolorosa tendenza ad omologarsi. Il cineasta indugia molto su questo passaggio, al punto da incarnarlo nettamente: Léo sara’ giustamente, perche’ l’adolescenza ne manifesta l’essenza, combattuto tra il desiderio di procedere liberamente nel proprio viaggio verso l’adolescenza, preludio dell’eta’ adulta, e la terrificante paura di distanziarsi dall’assolata e rassicurante somiglianza ai propri coetanei. In questo vi e’ una elegantissima riflessione sulla mascolinita’, che in una certa fase della vita, appunto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, deve emergere dalla tenerezza per farsi esibita. In un’intervista Dhont afferma che sarebbe opportuno ascoltare cosa i ragazzi tredicenni hanno da dirci per sempre e la loro necessita’ di connessione emozionale.
La scelta, da parte del regista, di narrare proprio questo momento dell’esistenza favorisce l’identificazione, ma lo fa in un crescendo di sfumature emozionali diverse che seguono gli stati d’animo dei protagonisti: pudore, tristezza, euforia, distacco, dolore.
Questo strappo rappresenta uno spartiacque, ben visibile nel film, tra la tenerezza dell’infanzia e la brutalita’, il dolore dell’adolescenza, passando necessariamente per la perdita della connessione cosi’ semplice e vitale nell’amicizia raccontata e l’esperienza della solitudine.
Secondo la mia opinione, ritengo un’opera convincente quando l’intenzione del cineasta arriva allo spettatore, senza peso e fulgida come l’arrivo della primavera.
La cinematografia di Dhont eccelle in questo: la capacita’ di servirsi delle tecniche cinematografiche – ed il fatto che il regista sia al suo secondo lungometraggio consente di considerarlo con uno dei talenti del cinema attuale e futuro – come viatico all’urgenza, e al coraggio, di mostrare il contrasto piu’ difficile da raccontare, quello tra se stessi e il proprio mondo interiore, nello scenario di vita in cui quel dissidio tocca il suo apice.
Ecco che si svela un elenco di ingredienti unici delle sue sequenze: corpi vibranti, emozioni trattenute in paesaggi naturalistici che le raccolgono (potente la presenza dei fiori come elemento descrittivo delle emozioni di Léo), una scrittura asciutta, minimalista, e un paio di occhi gonfi – quelli dello spettatore – che tracimano con i titoli di coda.
Non a caso la fotografia di Frank Van Den Eeden, gia’ collaboratore di Dhont in GIRL, ne fa da padrona: cosi come la cinepresa letteralmente insegue i protagonisti alternando primi e primissimi piani ai particolari, quasi a “costringere” Léo e Rémi a rivelarsi tra le crepe di quell’emotivita’ censurata, anche lo sguardo di Van Den Eeden si attarda, in una danza tra uomo e non uomo (natura), su colori, espressioni, odori, e l’intensita’ dei momenti piu’ semplici o struggenti in un equilibrio figlio di chi sa fare cinema.
Il regista ha infatti sottolineato il simbolismo che soggiace all’utilizzo dei colori, caldi e lucenti e poi freddi, a raffigurare cio’ che non e’ detto o rappresentato sulla scena.
Resta nella mente la forza di alcune scene indimenticabili, come quella in cui Léo non vuole scendere dall’autobus perche’ conosce e anticipa nello sguardo una notizia infausta, oppure quando lo stesso svela le sue paure in uno scontro-abbraccio con la madre di Rémi.
Lo spettatore lascia la sala con una strana euforia, ed un senso di smarrimento complici di una storia da ricordare.