Il “bad fan”: riconoscerlo per evitarlo


Dalla nostra inviata negli Stati Uniti d’America

Chi è il “bad fan” e perché è opportuno sbarazzarsene

Who is the “bad fan” and why is important to change our mindset when we watch TV series


Emily Nussbaum fa parte dello staff del New Yorker. Nel 2016 ha vinto il premio Pulitzer per la critica. Ha in attivo centinaia di recensioni, eppure quello che più la contraddistingue è la capacità di dare un nome ai fenomeni che riguardano il prodotto in serie. E ai modi con cui gli spettatori-partecipanti vivono ciò che stanno guardando.
Ha infatti parlato spesso del “cattivo fan”, lo spettatore, prevalentemente di genere maschile, che si sente appagato quando un anti-eroe fa qualcosa di sbagliato o maligno. Alcuni dei recenti prodotti televisivi di successo, quali Breaking Bad, i Soprano o True Detective confermano questa teoria, perché sono fatti per attirare una tipologia di fan che tende a non cogliere le ricadute morali dei comportamenti di questi personaggi. Chiunque interferisca con il percorso di libertà espressiva dell’anti-eroe è destinato ad apparire nello show come il vero antagonista, pur operando nel bene.
Di recente si è anche discusso di una versione femminile del “bad fan”, che opera tuttavia in modo diverso. Le donne, per esempio, sono abituate ad aspettarsi certi vantaggi dalle commedie romantiche: l’incontro con l’anima gemella, il corteggiamento, il finale perfetto e così via. Quando non si verifica, la spettatrice s’infuria perché quella routine di trama si rompe e l’identificazione salta.
In realtà, le donne nel racconto che resistono all’immaginario corrispondente di figure angeliche incapaci di sbagliare sorprendono lo spettatore indipendentemente dal genere. E si pensa automaticamente che non abbiano il diritto di essere definite protagoniste.
Che si tratti di una questione legata a certe specificità umorali dello spettatore che sempre entrano in gioco quando si guarda uno show, oppure di caratteristiche tipiche della scrittura di quel prodotto, poco importa. Alcuni personaggi detestabili attecchiscono sullo spettatore in modo diametralmente opposto rispetto a come sono: chi guarda finisce per amarli. E se uno show di questo tipo funziona, la conseguenza è produrne altri fino a saturare l’offerta.
Marina Pierri, scrittrice e critica televisiva, in Eroine richiama il concetto psicanalitico di archetipo per spiegare in che modo si fa esperienza dell’inconscio collettivo. Si tratta di una pluralità di raffigurazioni che intervengono nel determinare cosa e in che modo un prodotto risuona dentro di noi.

 In circostanze differenti della vita, la persona viene attratta da archetipi diversi che si presentano o si sono presentati come simboli; questi vengono rielaborati a seconda della sua realtà e sono capaci di informare profondamente il vissuto a livello sia psichico che empirico - Marina Pierri.

I personaggi delle serie TV consentono allo spettatore di accedere a queste immagini archetipiche, lasciando un segno quando incrociano mente, sensibilità e vissuto personali. Questo supera di gran lungo qualunque intenzione dell’autore o dello showrunner: i personaggi sono deputati a sopravvivergli.
Indipendentemente dalla sapienza con cui questi meccanismi vengono innescati, lo spettatore regala al prodotto qualcosa che trascende la visione: chi guarda partecipa attivamente all’intrattenimento.
Diversamente dai film, le serie sono prodotti lunghi e il tempo favorisce un attaccamento peculiare ai personaggi. Inoltre, alcuni attori matchano così bene bene con i personaggi che interpretano che lo spettatore finisce per farli coincidere. Si pensi all’interprete Josh Radnor nei panni di Ted Mosby in How I met your mother. Un’operazione quasi impossibile quella di sganciarlo mentalmente e affettivamente da quel ruolo.
In aggiunta, l’anti-eroe è quasi sempre un personaggio che fugge da se stesso, che va a fondo in cerca di pace e redenzione e che alla fine le trova rinunciando ad una parte di sé o morendo realmente. Ecco che il processo empatico raggiunge il culmine: perché la parabola discendente comporta sofferenza e lo spettatore è di norma molto sensibile a questo tipo di narrazione.
La serialità connaturata alla tipologia di prodotto e la reiterazione dello stesso modello narrativo dei personaggi rappresentano gli elementi specifici della maggior parte degli show che guardiamo oggi.
La presenza ridondante delle stesse categorie rappresentate sullo schermo perché generalmente apprezzate dalla vastità del pubblico partecipante è secondo la scrittrice Rebecca Mead imputabile al fenomeno della relatability. Termine che inizia a circolare negli anni 90 del secolo scorso, la relatability indica l’agglomerato di connotati che facilita l’immedesimazione con qualcosa o qualcuno.
Relazionarsi con qualcosa in grado di farci scavare a fondo dentro noi stessi è pratica antica e non concerne soltanto il prodotto televisivo. Riconoscersi nelle storie è una delle grandi gioie della cultura, ma questo non si verifica soltanto se possediamo quella vicenda, se aderisce perfettamente a ciò che abbiamo vissuto o che siamo. Succede se siamo attenzioniamo la storia e creiamo spazio per accoglierla.
Non è dunque necessario combaciare perfettamente con il narrato come in uno specchio per sintonizzarci anima e corpo con quello show.

Ancora Marina Pierri: le serie TV danno una mano sia ad uscire da sé che a entrare in sé, ma la condizione indispensabile affinché questo doppio movimento possa compiersi è l’ascolto attivo e decentrato, non solo l’immedesimazione.

L’unico modo per non ritrovarsi a vestire i panni del “bad fan” è diventare spettatori più consapevoli, in grado di appassionarsi a storie diverse dalla nostra, con uno sguardo aperto sulla diversità delle narrazioni. Il concetto di relatability richiama la gabbia dell’immedesimazione narcisistica, ma è chiaramente correlato anche a quello di relatività, una delle parole più belle e attuali del mondo. È opportuno iniziare a guardare le serie in modo differente: quello che non riecheggia direttamente dentro di noi non è necessariamente un difetto dello show, ma un modello diverso, correlato ad intenzioni, idee e background dell’ideatore del prodotto, a cui dovremmo affacciarci con approccio sempre interrogante, senza liquidarlo come un meccanismo malfunzionante. I filosofi e scrittori Maura Gangitano e Andrea Colamedici ne La società della performance consigliano di farsi una domanda quando si guarda uno show: “sta agendo su di me come un tranquillante o uno stimolante?



Diletta Ciociano, laureata magistrale in filosofia, masterizzata ed esperta di management delle risorse umane, professionalmente si occupa della gestione di progetti in ambito sociosanitario, pubblico e privato. Da sempre grande divoratrice di libri e film, ma appassionata di linguaggi culturali in generale, legge e dispensa consigli su cinema, letteratura, podcast e musica. Di recente trasferita negli Stati Uniti, vive a New Haven, Connecticut