Consigli per un cinema lontano dall’offerta mainstream

Foto tratta dal web: scena di “Nest”


Dalla nostra inviata negli Stati Uniti d’America

“Nest”. Per una conciliazione tra uomo e natura

From the concept of short movie to Nest, a real proof of good, precise, effective e direct cinema.


Cos’è il cortometraggio

Corto-metraggio è una parola composta, il cui significato è di facile intuizione. Si tratta di un termine utilizzato per indicare i film la cui durata massima raggiunge i 40 minuti. Una pellicola dunque di dimensioni ridotte, ma questo non scalfisce il suo senso. Segna da sempre l’esordio di grandissimi registi ed è tutt’oggi una scelta artistica a cui ricorrono molti cineasti. Nel tempo è stato oggetto di tanti fraintendimenti che dipingono il cortometraggio come il fratello meno brillante del lungometraggio. Tutto falso.
Sintesi, abilità di scrittura autoconclusiva in una manciata di minuti, ritmo, essenzialità, grazia nel montaggio. Peraltro con investimento economico e di troupe pari a quello di un film di durata canonica.
Christopher Nolan, ad esempio, dopo quasi vent’anni dal suo primo film decide di girare il corto Quay. Lo sceglie con convinzione perché crede che si adegui meglio alla storia che intende raccontare. Oppure capita che un corto anticipi un lungometraggio: è il caso del film Her di Spike Jonze, realizzato dopo il lancio del corto I’m here.
Queste sono solo alcune delle motivazioni per cui un filmmaker propende per un corto, la cui qualità supera di gran lunga le aspettative di molti spettatori che si approcciano con diffidenza alla sua formula abbreviata.

La rassegna “Incontri Fugaci” su MUBI

MUBI riserva sempre ottime sorprese e la volontà di presentare al pubblico una carrellata dei migliori cortometraggi degli ultimi anni è in linea con la sua cifra stilistica. Lanciata di recente sulla piattaforma, la rassegna “Incontri fugaci” ha in attivo la prima manciata di film brevi di grande impatto cinematografico.

Uno dei migliori selezionati è Nest di Hlynur Pálmason, corto danese di 22 minuti distribuito nel 2022. Il regista è noto ai cinefili per i suoi film precedenti, il thriller A white, white day – Segreti nella sabbia del 2019 e Godland, il dramma in costume del 2022, entrambi apprezzati al Festival del cinema di Cannes.
Girato durante la pandemia, il cortometraggio ha luogo in un’area rurale dell’Islanda. Mentre il paesaggio cambia lungo le quattro stagioni, tre fratelli – i figli del regista – collaborano per costruire una casa sull’albero. Insieme alla natura anche loro si trasformano, conoscendo il sogno, la caduta e il recupero. Gli adulti restano sullo sfondo, il mondo a venire è materia nei palmi dei fanciulli.


Recensione di Nest
La casa sull'albero è il posto magico che alberga nei sogni dei bambini. Eppure nessuno di loro immagina come avvenga il processo di costruzione. Ce la si figura già pronta come un perfetto luogo delle meraviglie.
In Nest, Hlynur Pálmason realizza due piani narrativi. Assistiamo dapprima al percorso di realizzazione della casa con i tre bambini che ne governano il processo. Più a fondo, invece, si riflette sul senso del tempo e sulla relazione tra uomo e natura.
La cinepresa è fissa su un'unica inquadratura - lo spazio e il tempo del racconto -, prediligendo uno stile essenziale. Al contrario, l'ambientazione fisica in cui si svolge la storia permea e s'insinua in questa struttura narrativa, consentendo l’osservazione di cambiamenti che interessano il paesaggio con l’avvicendamento delle stagioni. Si tratta di un arco temporale di 18 mesi tra il 2020 e il 2021, il cortile è quello della famiglia del regista. Nonostante lo slancio tecnico sia ridotto all'osso, la pellicola ha una sua evoluzione.
Lo spettatore si approccia al film con fare fanciullesco. Un'asta di legno in un'area spoglia pian piano si trasforma nella base per la casa sull'albero. I tre bambini iniziano a familiarizzare con il territorio: chiacchierano, giocano con il materiale di costruzione, cominciano insomma ad abitarlo. Questa intimità che cresce lentamente e la capacità inventiva e esplorativa del trio rappresentano il substrato simbolico del racconto, che sembra porsi in contrasto con l'operare aggressivo o distrattivo dell'era moderna. Infatti sappiamo che gli adulti esistono, ma non finiscono mai nella morsa del fotogramma.
Pálmason stesso è dietro le quinte, doppiamente osservatore come regista e padre, due volte accorto ma distante, non interventista.
Il punto di contatto, ma non di sutura, tra i due ruoli mescola fittamente realtà e finzione quando uno dei bambini cade dalla casa sull’albero, ma nessun adulto interviene. Di primo acchito viene da chiedersi se il documentarista naturalista abbia preso il sopravvento, lasciando che ogni cosa si svolga “come deve essere”, oppure se si tratti di una metafora volta a mostrare cosa succede quando l'agire umano incoscientemente sfida l'insfidabile.
In An Icelandic Cinema Podcast il regista risolve ogni dubbio, sostenendo di aver realizzato un film di finzione dove alcune sequenze sono state rievocate drammaturgicamente sulla base dell'esperienza vissuta dai bambini.
La stessa caduta è avvenuta in un contesto protetto, servendosi del supporto degli stuntmen. Questo escamotage non realistico "sporca" di certo la lente naturalista sposata fino a quel momento. Eppure la vicenda riprende il passo, riportando le carte al loro posto. I bambini si allineano al ritmo di tempo e spazio, le stagioni mostrano i loro fiori migliori ed anche l'uomo guarisce con pazienza. Se si pensa che il film è stato girato durante la pandemia, qui traspare tutto il valore simbolico del cortometraggio.
Le dinamiche umane paiono scomparire nella maestosità e inequivocabilità degli ambienti naturalistici presenti nel racconto e nell'inquadratura, eppure ad un occhio attento è l'amalgama che conta. La pandemia ha reso oppositivo il rapporto tra uomo e natura, questo film prova a conciliarlo con un attraversamento di attenzione, premura e condiscendenza.
La magia del cinema risiede in questo: metti una cinepresa fissa a riprendere quella che pensi sia un'unica sequenza e nel frattempo, senza accorgertene, ti troverai ad assistere ad un intero processo di trasformazione. Dei luoghi, delle persone e della relazione tra gli uni e gli altri.


Diletta Ciociano, laureata magistrale in filosofia, masterizzata ed esperta di management delle risorse umane, professionalmente si occupa della gestione di progetti in ambito sociosanitario, pubblico e privato. Da sempre grande divoratrice di libri e film, ma appassionata di linguaggi culturali in generale, legge e dispensa consigli su cinema, letteratura, podcast e musica. Di recente trasferita negli Stati Uniti, vive a New Haven, Connecticut